"The Message" by Napal
Questo testo può considerarsi una sintesi degli eventi che hanno portato l’Hip Hop da essere una sottocultura underground di New York a fenomeno e movimento globale alla portata di tutti; è sottinteso comunque che tante storie messe insieme e tante testimonianze dei suoi protagonisti creino quella memoria collettiva che noi possiamo definire storia dell’Hip Hop.
Quando si parla di storicizzazione di questo movimento bisogna tenere a mente che l’Hip Hop è un percorso e uno strumento per esprimersi e cercare la propria individualità attraverso gli elementi che lo costituiscono. Al di là del nostro tentativo di storicizzazione l’Hip Hop è qualcosa che non si può seguire da casa stando dietro un computer o semplicemente leggendo o studiando dei libri: per assimilare appieno la natura di questa cultura bisogna viverla attivamente, contribuendo con la propria presenza e creatività.
Non si tratta semplicemente di eseguire correttamente dei passi di ballo, fare alcuni disegni con lo spray o aderire a un’estetica di moda, vi è una mentalità dietro a tutto questo che va compresa e al tempo stesso tramandata ma solo facendone parte.
Lo scambio di consapevolezza e di esperienza è la base essenziale su cui si fonde tutto il movimento.
Oggi siamo in un’era in cui l’Hip Hop viene studiato nelle università, abbiamo esperti che snocciolano date ed eventi alla perfezione ma ci sarà sempre un distinguo da fare tra chi studia questa materia e chi la vive.
Che sia un breaker, writer, DJ o MC ciò che accomuna tutte le discipline dell’Hip Hop rimane di fatto il nome: scegliersi un nome e fare quel passo che porta un individuo da essere un semplice spettatore ad una persona che decide di aderire a questo movimento e mettersi in gioco.
A quel punto il proprio nome diventa realtà, la propria realtà, e quel nome sarà la base su cui si rapporterà e verrà conosciuto: per alcuni sarà un’esperienza di qualche anno, per alcuni un passatempo e, per chi si identifica totalmente in questo movimento, sarà una scelta di vita.
Ciò che viene narrato in questo libro è la storia di Massimo “Crash Kid” Colonna attraverso le testimonianze dei suoi compagni di crew, amici e famigliari, il tutto documentato con immagini che provengono in gran parte dal suo stesso archivio fotografico.
Crash Kid è stata una persona che ha vissuto il B-Boying e l’Hip Hop con una dedizione totale e ne ha fatto, appunto, una scelta di vita, sempre pronto a trasmettere il suo credo in Italia come all’estero. Oggi che l’Hip Hop è un fenomeno globale è doveroso rendere omaggio a una figura come lui.
Questo libro vuole essere una testimonianza del suo percorso come artista e al tempo stesso un modo per documentare e preservare la sua storia.
“Historia magistra vitae” La storia è maestra di vita.

Attribuire a un evento o far risalire a una data particolare la nascita dell’Hip Hop è un’operazione piuttosto complessa dal momento che la sua stessa identità è il risultato di un’evoluzione continua, una rielaborazione costante di concetti preesistenti, adattati e reinterpretati per creare un linguaggio nuovo. Questo linguaggio è ciò che oggi possiamo definire come la cultura Hip Hop composta dalle sue varie discipline.
Quello che avviene alla fine degli anni ‘60 e gli inizi degli anni ‘70 a New York è un enorme scambio di input e contaminazioni che progressivamente portano allo sviluppo di questa cultura.
Importante è capire, in primo luogo, il contesto sociale in cui nasce questo fenomeno. All’inizio degli anni ‘70 New York è una città totalmente spaccata in due blocchi: nel Downtown, nei quartieri bene come Manhattan, furoreggia la moda frivola della Disco con i suoi party fatti in loft selettivi in cui si accede solo per invito e con i suoi dj che dettano le tendenze come Dave Mancuso, Larry Levan o Frankie Knuckles. In contrasto con questa realtà apparentemente dorata coesiste la New York dei ghetti, quartieri interi come il Bronx in preda all’anarchia totale, emarginazione sociale, conflitti tra gang per il controllo del territorio e la gestione del narcotraffico. La realtà cruda di quegli anni è che New York è sull’orlo di un collasso finanziario senza precedenti che rischia di far sprofondare la città nella bancarotta totale.
In opposizione al mondo selettivo della Disco, in quartieri come il Bronx si sviluppa embrionalmente una cultura fatta di “Block Party” organizzati in strada e volti a creare un nuovo linguaggio con i pochi mezzi a disposizione. Come spesso ripetono molti fautori di questo cambiamento: “Create something from nothing – Creare qualcosa dal nulla”. Osservando i quattro pilastri fondamentali su cui ruota il movimento dell’Hip Hop, ovvero MCing, DJing, Breaking e Writing, possiamo notare come sia stato fondamentale per la nascita di questo movimento il contributo di molti pionieri. Se partiamo dell’elemento musicale, già nel 1969 DJ come Francis Grasso cominciano a sperimentare nelle discoteche di Manhattan una tecnica chiamata al tempo “Beat Matching”, in cui cercano di estendere un beat o una sezione musicale, mandando i dischi a tempo, per rendere il mix più ballabile.

Pochi anni dopo si arriva alle prime jam che si svolgono grazie a DJ come Disco King Mario, Pete Dj Jones, Grandmaster Flowers originario di Brooklyn, DJ Hollywood, e infine DJ Kool Herc (Clive Campbell, di origine giamaicana) che nel South Bronx l’11 settembre del 1973 organizza uno dei primi raduni ufficiali: il “Back to school jam” in 1520, Sedgwick Avenue del Bronx.
Kool Herc ha l’intuizione di potere estendere i breakbeat delle canzoni per creare un proprio groove, grazie al quale i breaker possono ballare, tecnica che lui inizialmente chiama “Merry Go Round”. Musicalmente ciò che distingue i party di Kool Herc è in primis la scelta musicale: Herc si rifiuta di mandare le hit disco del momento, spostando il suo interesse a pezzi meno noti e lati B di album funk, dove appunto si possono trovare pezzi strumentali con i beat che gli servono per creare i suoi famosi “Cutting Breaks”. Queste feste saranno seminali e influenzeranno molti altri dj del Bronx, come Grandmaster Flash, DJ Mean Jean, Grand Wizard Theodore (inventore dello scratch) e Afrika Bambaataa.
Cominciano così a entrare in scena altri due elementi fondamentali dell’Hip Hop, che al tempo sono ancora in fase di sviluppo: la figura del “Maestro di Cerimonie” (MC), termine che si deve a Grandmaster Melle Mel, e quella del Break Boy (o anche B-Boy), colui che balla su questi break musicali. Possiamo ricostruire l’origine del MCing seguendo l’evoluzione di uno stile di canto che già era radicato da anni nella cultura afroamericana con il nome di “Scat Singing”: è possibile trovare esempi di questo modo di cantare le parole sopra la musica già in artisti come Louis Armstrong o Ella Fitzgerald, fino ad arrivare a canzoni di James Brown come Brother Rapp.

Stiamo parlando di una pratica e tradizione orale molto importante nella cultura nera da sempre, ma forse il primo evidente esemplare di canzone “rappata” si può trovare nella traccia di Pigmeat Markham con il brano Here comes the Judge del 1968. Prendendo spunto da questa canzone cominciano la loro reinterpretazione molti MC che vengono dopo, ai primi party di Kool Herc, il principale MC che si esibisce e prende il microfono in queste feste è Coke La Roc, reputato da molti come un pioniere di quest’arte: è lui a creare sopra le basi di Herc delle improvvisazioni sulla linea di quello che al tempo viene chiamato “Old School Pimp Talk”, uno stile primordiale di rap figlio di tutto quel genere cinematografico della “blaxploitation”.
Sono molti gli adolescenti che frequentano questi party, che poi crescendo diventano MC a loro volta, perfezionando quello che Coke La Roc fa di routine. Nasce così quello che successivamente viene chiamato il “freestyle rap” o anche “party rap”, basato su improvvisazioni spontanee fatte sulla musica, eseguite principalmente in queste feste.
Si affermano maestri come Grandmaster Caz o Keith “Cowboy” Wiggins, a cui si deve tra l’altro il merito di aver coniato il termine “Hip Hop” intorno al 1978, una sorta di espressione onomatopeica usata a caso per rendere il suono del passo militare per salutare un loro amico che si era appena arruolato. Questa espressione viene poi ripresa da Lovebug Starski, che comincia regolarmente a chiamare queste jam feste “Hippety Hop Parties”, e da allora rimane il nome “Hip Hop”.
L’evoluzione del fenomeno Hip Hop negli anni ‘70 è avvenuta principalmente a livello underground e mentre il numero di MC si moltiplicava, aumentavano anche le contese per una propria affermazione e per ottenere più spazi. Cominciano così le sfide tra MC, con quello che viene definito come il “Battle Rap”. In questo periodo si formano gruppi come i Grandmaster Flash and the Furious 5, The Cold Crush Brothers, Funky 4 plus 1, Treacherous Three, Fantastic Five, Sha Rock e The Crash Crew.


La scena del tempo però si trovò improvvisamente sotto i riflettori del mainstream quando il 25 marzo 1979 esce il singolo composto dalla Fatback Band, con il titolo King Tim III. Sull’onda del suo discreto successo, il 16 settembre dello stesso anno viene registrato il primo singolo rap destinato a diventare una hit per le classifiche, chiamato Rappers Delight degli Sugar Hill Gang. Il singolo viene criticato dalla scena Hip Hop di allora per il fatto che la Sugarhill Gang non proviene dal Bronx e non erano tra gli MC fautori della sua evoluzione (addirittura molti dei loro testi erano perfino rubati da altri MC come Grandmaster Caz!). Nonostante la dubbia autenticità del pezzo, Rappers Delight ha il merito di far oltrepassare al rap i confini del Bronx contribuendo a renderlo un fenomeno globale, prospettiva inimmaginabile appena pochi mesi prima.
Questi due singoli fanno capire alle case discografiche di allora che il rap poteva essere commercializzato nel formato di un album, dal momento che fino ad allora il rap era stato solamente un fenomeno relegato ai party o comunque a una dimensione live.
Di pari passo con questa evoluzione musicale avviene lo sviluppo della figura del Break Boy detto anche B-Boy. Bisogna tenere in considerazione il fatto che molte delle persone che abbiamo citato finora erano dedite a più di una disciplina dell’Hip Hop, quindi spesso si poteva trovare un MC che oltre a rappare o fare il DJ poteva anche essere un breaker o uno che dipingeva graffiti: basta ricordare come in quegli anni Grandmaster Flowers dipinge graffiti con una crew chiamata “The Last Survivors” e Kool Herc fa parte di una crew di writer chiamata gli “Ex Vandals”.

Come per l’Hip Hop, le origini del breaking sono difficili da tracciare. Il ballo ha sicuramente il suo sviluppo verso la fine degli anni ‘60 e gli inizi degli anni ‘70 a New York, ma le fonti da dove hanno tratto ispirazione i primi B-Boy per creare le mosse iniziali possono essere molteplici: elementi della lotta capoeira, passi del mambo latino, Lindy Hop, ginnastica artistica, fino ad arrivare a balli tribali africani. Si può vedere in un documentario del 1959, girato a Kaduna (Nigeria), tribù ballare passi rudimentali che assomigliano verosimilmente ai moves fatti dai breaker di New York molti anni dopo, basta vedere le immagini per notare passi come il Knee Spin, il Turtle o un primordiale modo di girare sulla testa. Così come il blues moderno americano trae le sue origini dalle musiche del Mali, può darsi che molti di questi passi siano stati tramandati in ambito afroamericano e rielaborati dalle nuove generazioni per creare poi il breaking.
Oltre a questi input dobbiamo tenere a mente l’importante influenza nella cultura popolare del tempo di persone come James Brown e i suoi balli come il Soul Swinging, il Mash Potatoes o il Camel Walk, star del tempo come Michael Jackson, Charles “Robot” Washington o la crew dei “The Lockers” capitanata da Don “Campbellock” Campbell che appaiono regolarmente su programmi televisivi come Soul Train.
Molti moves e passi del tempo sono nati da rielaborazioni di mosse preesistenti. A conferma di questa teoria possiamo citare anche solo alcuni casi eclatanti come quello di Bill Bailey che fa il primo il “Moonwalk” (passo che lui al tempo chiamava “Backslide”) documentato già nel 1943 nel film Cabin in the Sky, o di Frankie Darro che esegue un “HeadSpin” perfetto nel film Wild Boys on the Road già nel lontano 1933, anche se la prima documentazione di un ragazzo che gira sulla testa ed esegue un embrionale “Headspin” risale addirittura al 1898, come si vede in un filmato di Thomas Edison.
Kool Herc chiama questi ragazzi che ballano ai suoi party “Break Boys” o, in maniera abbreviata B-Boys, perchè sono appunto i momenti in cui entrano in pista e si esibiscono sopra i suoi breakdown musicali.

La terminologia è importante per il fatto che il ballo originario ha esattamente questo nome: B-Boying. Più tardi lo stesso ballo viene definito “breakdance” dai media, un termine che per molti pionieri di questa pratica viene considerato dispregiativo (così come erroneamente si chiamano per anni “Graffiti”, una pratica che nasce sotto il nome di “Writing”).
Nel calderone del termine “breakdance” vengono poi inseriti molti altri passi come il “popping” il “locking” e l’“Electric Boogaloo”, che in verità sono stili che provengono dal funk della scena di Los Angeles, le cui origini si possono ricondurre a James Brown con la sua canzone e i suoi passi chiamati “Boogaloo”. Ovviamente l’incredibile influenza di James Brown sulle nuove generazioni che creano l’Hip Hop è talmente grande, sia per il ballo che per quanto riguarda l’aspetto musicale, che occorrerebbe un libro a parte solo per lui: James Brown è l’Hip Hop prima ancora che esistesse il termine Hip Hop, rimane nella storia come l’artista più campionato ed emulato sia da DJ che da B-Boy di tutte le generazioni.
Cosa avviene ai primi party nel Bronx? Ad “A1 B-Boy Sasa”, uno dei principali pionieri che si esibisce alle jam di Kool Herc e considerato da molti il più innovativo e forte B-Boy, viene attribuito il titolo “A-1”, quello che oggi si potrebbe chiamare “King”, “il re”. Agli inizi degli anni ‘70 Sasa, insieme ad altri B-Boy del tempo come The Nigga Twins, Trixie o Clark Kent, sviluppa le basi per questo ballo su cui poi i breaker aggiungeranno nuovi elementi, essendo principalmente un ballo che si sviluppa sul confronto e la sfida.
In seguito i breaker cominciano a muoversi in maniera più organizzata, formano le prime crew, concetto che deriva sostanzialmente dalle gang del tempo. Tra le crew storiche possiamo trovare nomi come The Mighty Zulu Kings, The Bronx Boys,The Salsoul Crew, The Crazy Commanders Crew, The Rock City Crew, The Young City Boys, The Rock Steady Crew, The Dynamic Rockers, The Magnificent Force e i New York City Breakers.


Quello che perfezionano questi breaker viene oggi inteso come il B-Boying originario Newyorkese basato su mosse come il “Top Rocking”, composta da move utilizzati generalmente prima di un’entrata di breaking, una sorta di introduzione al proprio stile e un modo per il B-Boy di entrare in sintonia con la musica, con passi come “Indian Step”, poi si scende a terra dove gran parte del breaking viene eseguito, il “Down Rock” anche chiamato “Floorwork” o “Footwork” sono dei passi eseguiti a terra mescolando varie combinazioni di mosse come ad esempio il “6-Step” o il “3-Step”, o passi come “Sweeps” e “C-C’s” eseguiti stando sempre a terra sulle mani e i piedi, per poi passare ai move di impostazione più acrobatica chiamati appunto i “Power Moves”. Questi ultimi possono avere molte varianti, quelle che sono sviluppate in quegli anni vengono chiamate “Foundation Moves”. In teoria le mosse base su cui si sono costruite tutte le evoluzioni che conosciamo oggi del breaking, come ad esempio il “Windmill” (dove si ruota a terra sulla parte superiore del corpo) o il “Backspin” (eseguito girando sulla schiena), si crede provengano dal Kung Fu, e perfezionate da B-Boy come Jo Jo, Jimmy Lee e Crazy Legs, membri originari della Rock Steady Crew. Inoltre, si attribuisce a “Kid Freeze” dei “Dynamic Rockers” il merito di aver rifinito l’“Head Spin”, uno dei move più iconici del breaking, quello in cui si gira sulla testa.
Bisogna evidenziare come parte importante dell’evoluzione del breaking come danza vi sia, oltre lo sviluppo musicale del “Breakbeat”, anche di quello che viene chiamato nel gergo Hip Hop come il “Cypher”, che può essere tradotto come il “Cerchio”: le dinamiche della sfida si sviluppano tutte stando nel cerchio che rende immediato il confronto tra B-Boy e al tempo stesso il contatto con il pubblico; l’aspetto dell’interazione con la musica e il pubblico è un fattore fondamentale da tenere sempre presente per un B-Boy. Chi viene considerato il “King” o il vincitore della sfida sarà quello che, oltre ad essere il più bravo ad eseguire i suoi passi, sarà anche quello che curerà nel dettaglio la sua entrata ed uscita dal “Cypher”.

Che sia un B-Boy, un DJ, un MC o un Writer, lo stile e la ricerca del proprio perfezionamento è quello che farà emergere l’individuo, ma al tempo stesso lo stile è quello che oltre a diventare un modo di confronto con altre persone fa sì che l’Hip Hop diventa una ricerca personale per trovare la propria voce e il proprio approccio. Per citare Kase 2 “Devi avere stile se vuoi combattere per lo stile, se non hai stile per quale motivo vuoi far parte di un movimento che è interamente basato sullo stile?”.
Citando Kase 2 possiamo arrivare a quella che viene menzionata come la quarta disciplina dell’Hip Hop, il “Writing”. Il writing può essere considerato come l’animo anarchico di questa cultura, su cui tutt’ora persistono delle divergenze di vedute: appartiene veramente all’Hip Hop oppure no? Mentre il DJing, l’MCing e il Breaking hanno avuto uno sviluppo quasi imprescindibile l’uno dall’altro, il writing è un fenomeno che appartiene allo stesso mondo, proviene dagli stessi ambienti è il primo movimento artistico della storia creato da adolescenti per altri adolescenti, ma molti pionieri del writing non fanno parte dell’underground Hip Hop.
Le prime manifestazioni di writing avvengono in luoghi che non sono neanche il Bronx: a esempio Cornbread, che era un writer attivo già verso la metà degli anni ‘60, proviene da Philadelphia. Se si tiene in considerazione il “Cholo Writing” delle gang di Los Angeles, si possono trovare esempi di questa forma d’arte addirittura negli anni ‘30.
Le prime tracce documentate di writing a New York si possono trovare intorno al 1969, in quartieri come Washington Heights che è nella parte settentrionale del distretto di Manhattan, quindi molto lontano dal Bronx.
Molti writer pionieri del passato non si riconoscono nel movimento Hip Hop ma, allo stesso tempo, molte persone che gravitano nell’ambiente dei B-Boy, Dj e MC praticano il writing e apportano un contributo importantissimo allo sviluppo di questa disciplina: basti citare il leggendario Phase2 che inizia come Breaker per diventare negli anni ‘70 uno dei maestri indiscussi del writing.
Ciò che è evidente è che, una volta assodato il matrimonio tra queste quattro discipline, si crea una miscela esplosiva. Tra le persone che documentano questo fenomeno dell’underground newyorkese si possono citare nomi come Jon Naar e Norman Mailer (1974 The faith of Graffiti), Gordon Matta-Clark (Graffiti Photoglyph 1973), Fenton Lawless (The New York Graffiti Experience 1976), Michael Mcintyre e Julia Cave (1976 Watching my Name go by), Manfred Kirchheimer (1981 Stations of the Elevated), fino ad arrivare a persone come Tony Silver, regista nel 1983 del documentario Style Wars.
Fino ad allora tutto questo movimento underground era stato relegato solamente al Bronx e alle periferie di New York. Tranne in casi isolati, come la mostra del 1979 alla galleria Medusa di Roma e le canzoni “Magnificent Seven” dei Clash o “The Hardest Part” e “Rapture” di Blondie del 1980, questi sono alcuni esempi di come questo fenomeno è emerso a piccoli passi fuori dal circuito periferico newyorkese.

La contaminazione tra il circuito punk e la scena underground Hip Hop del tempo viene oggi spesso trascurata da molti storici dell’Hip Hop ma è stato un incontro estremamente costruttivo: bisogna comprendere che è proprio il giro di locali punk di Manhattan a far suonare dj come Afrika Bambaataa e a presentare questa musica nel downtown di New York a un pubblico bianco senza filtri in locali come il Mudd Club, The Negrill, The Roxy dove si sperimentava la fusione di diverse scene del tempo. Gli anni ‘80 rappresentano l’era d’oro della “Club Scene” in cui in una serata potevi incontrare da Jean-Michel Basquiat che si improvvisa a fare il DJ, a Keith Haring passando per ogni genere di punk, B-Boy, Afrika Bambaataa, Lou Reed fino a Grace Jones.
Importante è anche anche il tour Europeo dei Clash del 1981, dove portano con loro Futura 2000, Dondi e Fab 5 Freddy che dipingono proprio durante i loro live dei graffiti sul palco mentre i Clash suonano; in questi concerti si esibiscono anche in degli intermezzi musicali Futura e Fab 5, dedicandosi all’arte del rap.
Un articolo degno di nota dedicato all’allora nascente movimento Hip Hop che focalizza la sua attenzione sulle quattro discipline è scritto da Sally Banes sul Village Voice dell’aprile 1981, servizio reso possibile anche grazie alla collaborazione di Fab 5 Freddy, Henry Chalfant e Martha Cooper. Questo contribuisce a creare un iniziale “Buzz” e a far conoscere questo fenomeno a persone che non erano mai state nel Bronx. Storica è anche la “battle” tenutasi al Lincoln Center di New York tra i Rock Steady Crew e i Dynamic Rockers, un evento organizzato da Henry Chalfant che ha dato notevole visibilità mediatica al fenomeno.
Ciò che avviene dal 1982 in poi possiamo considerarlo come una progressiva espansione ed esportazione dell’Hip Hop a livello globale. Di queste prime ondate possiamo citare eventi come l’anteprima mondiale del film Wild Style, presentato nell’ottobre del 1982 in Giappone ancor prima che in America: Wild Style ha avuto il merito di catturare in maniera verosimile cosa fosse l’Hip Hop e quello che avveniva nel Bronx in quei tempi.
Altro evento seminale è la prima tournée mondiale di Afrika Bambaataa, in cui presenta il suo suo singolo “Planet Rock”. Nel novembre del 1982 l’artista fa la sua prima esibizione a Londra accompagnato da figure come Gran Mixer D.S.T, The Rock Steady Crew, Futura 2000, Dondi, Fab 5 Freddy e Rammellzee.

Afrika Bambaataa può essere considerato il vero ambasciatore dell’Hip Hop e colui che con la sua visione ha innalzato il movimento a vera e propria espressione artistico-filosofica; con Bambaataa si ha la consolidazione delle quattro discipline dell’Hip Hop che vengono ora chiamate da lui “elementi”, cioè il DJing, MCing, Breaking e Writing ed il quinto elemento rappresentato dal “Knowledge”: l’autoconoscenza e la consapevolezza diventano così parte di un movimento più grande volto a una ricerca quasi spirituale.
Afrika Bambaataa, che prende il suo nome ispirandosi al leader Zulu “Bambatha Kamancinza”, cresce in una famiglia dove la madre è già un attivista dei movimenti per i diritti delle comunità afroamericane. Bambaataa comprende come il movimento Hip Hop può essere inteso sia come un movimento artistico sia come uno strumento costruttivo per la rivendicazione dei diritti e l’autoaffermazione della sua comunità. Oggi siamo in un’era quasi post-ideologica, si tende spesso a sottovalutare molte cose o a darle per scontate, ma bisogna comprendere come, agli inizi degli anni ‘80 in un’America in piena era Reaganiana, parlare dei ghetti neri, del Bronx, della musica Hip Hop o dei diritti degli afroamericani fossero argomenti spesso accolti con totale distacco o peggio ancora ignorati totalmente dai media americani o dal pubblico medio bianco.
Va sottolineato inoltre come la nota emittente televisiva MTV, fondata nel 1981, ha trasmesso il suo primo video rap soltanto nel 1984, mandando in onda “Rock Box” dei Run Dmc, e ignorando così di fatto per anni la nascente musica Hip Hop.

A piccoli passi il mainstream e Hollywood hanno compreso che il fenomeno dell’Hip Hop poteva essere commercializzato e poteva generare profitto. Il primo video musicale trasmesso da MTV con scene di “breakdance” è il video pop del 1981 di Rod Stewart “Young Turks”, in cui troviamo Paul “Cool Pockets” Guzman Sanchez; in seguito vengono realizzati video come “Buffalo Gals” di Malcolm McLaren nel 1982 e poi “Hey You the Rock Steady Crew” nel 1983. Questi video hanno il merito di creare la mania del breaking, che diventa così un fenomeno che contamina ogni forma di intrattenimento e ogni tipo di video musicale andando oltre il genere musicale del rap. In quegli anni lo si può trovare in video funk come “Party Train” della Gap Band fino ad arrivare a video pop come “I’m in the mood” di Robert Plant.
Sull’onda di questa popolarità crescente vengono prodotti film come Flashdance, Beat Street e Breaking. Queste pellicole, anche se con trame molto semplici e sicuramente edulcorando la vera situazione dei ghetti di quegli anni, hanno il merito di far esplodere il fenomeno dell’Hip Hop a livello mondiale, diventando di fatto dei film culto. Sono ancora considerati come dei punti di riferimento attraverso cui il resto del mondo scopre l’Hip Hop. Il distinguo importante che va fatto però è che mentre chi ha prodotto questi film li ha fatti al mero scopo di lucrare su un fenomeno che faceva tendenza, allo stesso tempo migliaia di giovani intorno al globo si identificano in essi, capendo di fatto che questo movimento aveva molto più spessore di quanto non veniva rappresentato: l’Hip Hop non aveva in realtà bisogno di hype, è stato uno di quei rarissimi casi dove ciò che veniva promosso era nettamente superiore e anni luce avanti a qualsiasi strategia di marketing.
In questi anni vi era ancora una scarsa quantità di materiale che documentava o rappresentava il mondo dell’Hip Hop in maniera più o meno fedele o corretta ma al tempo stesso molti di questi progetti si avvalsero di collaborazioni con artisti che realmente hanno contribuito a creare questa forma d’arte. Se citiamo “Buffalo Gals”, singolo del tempo messo insieme da Malcolm McLaren e Trevor Horn, si possono trovare nel video The Rock Steady Crew che ballano e addirittura Dondi White che dipinge. Anche il caso di Beat Street dove troviamo crew fondamentali quali New York City Breakers e Rock Steady Crew, le parti rappate erano affidate a maestri come Grandmaster Melle Mel and the Furious Five, Treacherous Three, Doug E. Fresh e per i graffiti si avvalgono della consulenza artistica di writer del calibro di Lonny Wood in arte Phase 2 e Bill Cordero aka “Blast”.

Quindi stiamo parlando di un’era dove chi si avvicina a questo mondo ha in verità pochi input, però decisamente tutti di altissimo livello.
Influenzati da questi film in Inghilterra, Germania, Francia, Olanda, Australia si creano e si consolidano molto velocemente delle scene che cominciano a sviluppare un proprio stile e un proprio approccio dell’Hip Hop. In Italia questo processo avviene più lentamente forse anche per via della barriera linguistica; agli inizi degli anni ‘80 si sviluppano le prime realtà sparse, tra Milano, Torino, Firenze, Bologna, Napoli e Roma.
Agli esordi la scena italiana cresce grazie al contributo importantissimo di pochissime persone, dal momento che attraverso i media italiani filtra davvero poco. Ad aver dato visibilità al breaking sulla televisione nazionale vanno citati i programmi “Due di Tutto” trasmesso da RaiDue, che manda in onda la clip di Jeffrey Daniel mentre esegue il suo iconico “Body Popping” insieme agli Shalamar, poi anche “Orecchiocchio” nel 1983 il cui autore, Massimiliano Verni, in un viaggio a New York conosce la crew di breakers “Magnificent Force” e rimane affascinato dalle loro performance decidendo di documentare le loro esibizioni per poi in seguito portarli in Italia come ospiti del programma. Altro passaggio televisivo importante del periodo è “Blitz”, trasmesso in diretta dal Teatro Tenda Mancini di Roma dove partecipa la crew newyorkese Magnificent Force con Mr Wiggles, Fabel, Cosmic Pop, Fast Break e Icey Ice presentati dal bravissimo Gianni Minà.
Al tempo molte informazioni vengono passate di mano in mano tra le poche persone che si erano appassionate: i pochi fortunati che hanno un videoregistratore si scambiano duplicati di VHS con il raro materiale sul breaking che si riuscivano ad ottenere, videocassette duplicate talmente tante volte che la qualità di ogni duplicato risulta sempre più scadente. Anche se di una qualità pessima, avere questi video diventa fondamentale per poter vedere e rivedere come vengono eseguiti correttamente i passi di breaking e poter imparare.
Cruciali sono state le prime jam organizzate in Italia in quegli anni chiamate appunto “Zulu Party”, prendendo il nome ovviamente dalla filosofia della “Zulu Nation” di Afrika Bambaataa. Attraverso lettere o per via telefonica si cerca di radunare insieme più B-Boy, MC, DJ e Writer possibili a queste jam… ovviamente stiamo parlando di un’era in cui tutta la scena italiana del tempo entrava ancora in una stanza. Storici rimangono gli Zulu Party come quello di Torino del 1984, di Parma del 1986; i primi party di Roma sono del 1987 e l’Hello Johnny del 1989, Mantova del 1990, e The Jam sempre a Roma del 1992, solo per citarne alcuni.
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