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RUN DMC & PUBLIC ENEMY A ROMA | UN ESTRATTO DAL LIBRO “CRASH KID, A HIP HOP LEGACY “

di SUMO [KIDZ SAN LORENZO]

Nel 1988, mentre ero in piena pubertà e frequentavo la terza media in una scuola vicino alla stazione Termini di Roma, il rap entrava nella sua fase adulta e cominciava la transizione da genere di nicchia a denominatore comune del pop, facendosi largo nelle classifiche e di conseguenza nei gusti musicali dei ragazzini bianchi di tutto il mondo. Io, come tutti a quell’età, vagavo alla ricerca del mio percorso musicale, affascinato da tante cose, anche molto diverse, alcune anche molto brutte. Le playlist del tempo erano cassette registrate che rullavano nei walkman in cui “Gimme Five” di Jovanotti e “My Rhyme Ain’t Done” di LL Cool J, unici pezzi rap sul Juke Box del paesino umbro dove trascorrevo l’estate, coesistevano senza vergogna.

I media non erano social, il termine “rete” era solo sinonimo di canale televisivo e Mtv visibile esclusivamente sul satellite. La carenza di riferimenti e materiale assieme alla quasi totale incapacità dei media di raccontare quel fenomeno non facevano che accrescere il desiderio di saperne di più e avere un contatto per una volta diretto. A maggio mia sorella era tornata esaltata dal concerto di Michael Jackson al Flaminio, la mia occasione si sarebbe presentata di lì a poco.

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T-shirt del Tour Europeo di RUN DMC e Derek B

Da qualche settimana infatti lungo il percorso dell’autobus che mi portava a scuola erano comparsi manifesti di un concerto al Teatro Tendastrisce il cui programma prevedeva Public Enemy, Run Dmc, come dire, il meglio del rap statunitense, e Derek B, rapper londinese piuttosto popolare in quei giorni. Nelle settimane che mancavano all’evento, vivevo ogni rarissimo passaggio su Video Music dei clip di “Run’s House” e “Night Of The Living Baseheads” come un tuffo al cuore, pregustando quello che sarebbe stato il mio primo concerto rap, anzi il mio primo concerto, punto.

Tanti concerti dopo, non so se per l’acustica spesso pessima di piccoli locali o per la specificità dell’Hip Hop che anche dal vivo poggia su musica riprodotta, l’espressione formata dalle parole “concerto” e “rap” ha preso ad assomigliare ad un ossimoro. Due termini che fanno a cazzotti se messi l’uno accanto all’altro, che rimandano a occasioni assimilabili alle cene con i parenti più che a un evento gradito: ci vai perché gli vuoi bene pur sapendo che sarà un supplizio, ma siamo alla fine degli anni Ottanta, avevo tredici anni ed era tutto oro quel che luccicava.

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Poster del concerto di RUN DMC e Public Enemy a Roma

Non sapendo dove si comprassero i biglietti, mi sono rivolto all’edicola sotto casa, che peraltro è ancora lì, buia e stipata all’inverosimile come allora. Marco, il figlio del titolare, mi indica il negozio Orbis di Via Cavour. Nei primi mesi di terza media entrare in possesso di quel biglietto mi rendeva automaticamente un uomo fatto e finito agli occhi dei miei compagni di classe. Era tutto pronto, mia mamma mi aveva anche spiegato quale autobus portasse sulla Colombo.

Arriva il grande giorno, mi sveglio con qualche linea di febbre – e ora? – mia mamma ovviamente non si scompone e non vede ragioni per tenermi a casa, è tedesca. Mio padre, siciliano e ipocondriaco, sarebbe di avviso opposto se sapesse dei miei programmi, ma è in casi come questi che avere genitori separati è una gran fortuna. Mi avvio dunque verso l’evento indisturbato, arrivo con diverse ore di anticipo, ansioso di non trovare posto, timore quanto mai infondato quando si tratta di rap in Italia. Ricordo invece una folla oceanica, uno spazio enorme, probabilmente solo una suggestione, come quando si torna sui luoghi della propria infanzia e tutto ci appare più ridotto di come lo ricordavamo, ma la sensazione di appartenere a un fenomeno collettivo era confortante. Ci sentivamo dentro un’adunata metropolitana ordita tramite passaparola stile scena di apertura de I Guerrieri della Notte, ognuno con la propria uniforme sgangherata.

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Fotogrammi dal video di “Iceberg” di Ice-T, girato a Roma

Sono proprio dove volevo essere, di fronte al palco, centrale, incollato alla barriera che divide il pubblico dal palco creando un passaggio in cui lavora la security, i fotografi e qualche giornalista. A pochi minuti dall’inizio del concerto vengo abbagliato dal faro di una telecamera, in capo alla quale c’è Red Ronnie*, che intervista tutta la prima fila. Sarebbe toccato a me fare la parte del “giovane appassionato di questa nuova musica” se un po’ la timidezza, un po’ il terrore suscitato dall’immagine di mio padre che mi vede in televisione sapendomi a casa con la febbre, non mi avesse portato a coprirmi il volto con una mano, come a pettinarmi. La manovra goffa svia l’attenzione del giornalista su un ragazzo accanto a me, di poco più grande, che non si fa sfuggire l’occasione e, abbracciato a un amico, grida rivolto alla telecamera “Stamo tutti qua a sudà per i Run Dmc… Tanto l’omo ha da puzzà, daje!!”. Subito mi pento e invidio tanta disinvoltura.

Inizia il concerto. Derek B si esibisce per primo, il dai e vai di “Who’s number one! Bullet from a gun!”scalda il pubblico, “Bad Young Brother” seppur non spiccasse per originalità era un buon disco che ricalcava il trend del momento, tanta 808 e pochi campioni. È il turno degli americani, si fa sul serio: “Sucker Mc’s” “It’s Like That”, “Peter Piper” “My Adidas” “Run’s House”, il catalogo del trio di Hollis, Queens è già leggendario, gli scratch di Jam Master Jay e quel modo di completare le frasi a vicenda dei due mc stregano la folla – non ci capisco niente, ma dal vivo è un’altra cosa. I Run Dmc avevano reso obsoleta la generazione di Flash, Bambaataa e Cold Crush Brothers tutta presa a sfoggiare borchie, creste, vestiti di scena post-apocalittici o stivali con i tacchi a spillo alla Rick James, semplicemente riproponendo lo stile quotidiano dei b-boys newyorkesi al mondo: le catene d’oro, le adidas slacciate, i kangol, i Cazal, le tute acetate… Avevamo davanti agli occhi delle icone. Mentre il trio del Queens era all’apice di una sfavillante carriera che si avviava però verso la conclusione, i Public Enemy rappresentavano il passo successivo in un’ideale evoluzione del rap, dopo lo stile e la spacconeria, questo genere aveva acquisito una coscienza politica anche piuttosto rabbiosa.

1988 | RUN DMC, Public Enemy, Afrika Bambaata, Derek B, Goody Music in store (Promoter of the event)

Nel rap, definito spesso musica parlata, comprendere cosa viene detto ovviamente aiuta, non era necessario però sapere l’inglese o aver letto di radicalismo nero per percepire l’unicità dei Public Enemy. Bastava “Rebel Without a Pause” e il muro sonoro della Bomb Squad intessuto di sirene, fiati e dissonanze, a proiettare chiunque in mezzo a una qualsiasi sommossa degli anni ‘60 o a far presagire quelle del ‘92. Un’atmosfera di rivolta pressante, aggravata da media che non dicono la verità e una società senza giustizia, basata sulla paura, il consumo e la coercizione. Saltava già agli occhi la capacità della crew di Long Island di “tenere” il palco, scontato se si è di fronte a uno show di una band rock o funk, composta cioè da più elementi che impegnano lo spettatore su più livelli, meno nel rap dove tutto ruota attorno a due sole figure, il dj e l’mc. I Public Enemy colmavano quel vuoto strutturale con un disegno ben preciso, tutti avevano un ruolo, un alter ego e una propria funzione: l’hype man, la sicurezza/esercito personale, il portavoce, il ribelle.

Quella serata di trent’anni fa certamente ha dato vita a qualcosa che fin lì avevamo letto o visto solo approssimativamente: una lente che ha definito i margini di cosa fosse l’Hip Hop, una sorta di imprinting, avevo trovato mamma e l’avrei cercata in ogni cosa da lì in avanti.

Se è vero che l’Hip Hop non era originariamente una musica pensata per noi, né rivolta a noi, intesi come ragazzini bianchi, è plausibile allo stesso tempo che l’illusione di affacciarsi su una realtà come quella afroamericana, con cui non avevamo assolutamente niente a che fare, abbia contribuito alle ragioni del suo successo.

Qualche tempo dopo quella storica serata di ottobre, un bel giorno sul 71, autobus diretto da San Lorenzo a Piazza San Silvestro, avrei incontrato un ragazzino della mia età che sembrava uscito da Beat Street, ci saremmo squadrati reciprocamente, lui i miei capelli assurdi e io i suoi laccioni, troppo perfetti per non nascondere un trucco (un’impalcatura di cartone sistemata all’interno tra linguetta e lacci). In seguito, io e Napal avremmo scoperto di avere le stesse passioni, ma soprattutto gli stessi avversari. Eravamo gli strambi del quartiere e a forza di essere inseguiti non potevamo che solidarizzare.

1988 | RUN DMC, Public Enemy, Afrika Bambaata, Derek B, Goody Music in store (Promoter of the event)

Grazie a quell’amicizia avrei cominciato a fare i graffiti – non eravamo ancora così sofisticati da chiamarlo writing – e conosciuto e frequentato saltuariamente Massimo Colonna Crash Kid, i “francesi” Eric, Cesar, Ben, i writers Maelo, Clown, Cool Art. In qualche occasione mi sarei perfino ritrovato sul motorino di Massimo, sballottato tra San Lorenzo, Piazza Barberini, Babilonia, e la galleria che l’ironia della sorte gli aveva intitolato anni prima ancora della sua nascita, Galleria Colonna oggi Galleria Alberto Sordi (!). Insomma, esisteva una scena romana e Massimo tra Kangol, Bubblegoose, Puma States e Beltbuckle si presentava ai miei occhi come un semidio, protettore di quelli che come me venivano picchiati per delle scarpe da basket. Qualche anno dopo, in una assonanza con il nome d’arte di Massimo di cui mi accorgo solo oggi, sarebbero nati i Kidz San Lorenzo: dei monelli con l’ossessione per il quartiere, presa in blocco dagli americani e trapiantata qui in chiave ironica. Avremmo tappezzato le strade di tag e throw up al punto da scombinare l’immaginario dei più piccoli: un giorno sul giornalino del quartiere notiamo il disegno di un bambino che ritrae i suoi amichetti giocare a pallone, sullo sfondo un muro su cui campeggia la scritta “Kidz”. Insomma, livello di popolarità “Forza Roma”.

Rispetto alla fine degli Ottanta, l’Hip Hop oggi è una realtà globale, attorno ad esso la musica pop si è completamente riorganizzata e ridefinita utilizzando tecniche e approcci che i pionieri hanno forgiato spesso proprio perchè privi di grandi mezzi e alternative. Una cultura diventata industria, passata dalla strada alla massa, fiorita nel tempo ancora più rapidamente e capillarmente anche grazie a internet. Le cose erano un po’ diverse al tempo di Crash Kid, in quella Roma era lui la rete, come tale aveva attratto e fatto convergere persone ed energie, accelerando la diffusione della cultura non solo nella sua città, ma in Italia e in Europa come dimostrano le jam e le crew che si è lasciato alle spalle tra un giro di testa e l’altro.

Cash Money,
1988 |Cash Money & Marvelous, Crash Kid

Crash Kid era davvero internet prima di internet, rappresentava non solo sé stesso in quanto breaker e writer, ma un network di conoscenze, agganci, amicizie sparse in tutto il mondo. “Devi andare a New York? Che problema c’è. Segna questo nome: Richie Colon, tu lo conosci come Crazy Legs”. Lo spirito di condivisione che ha sempre animato Massimo non era affidato però all’indolente cliccare di un mouse, comportava il coinvolgimento fisico delle persone, di più persone da più parti del mondo, una interazione dispendiosa e quotidiana mossa dal puro entusiasmo.

Oltre al talento, evidente a chiunque lo avesse visto ballare, è quest’umanità che rendeva il breaker romano tanto più speciale se si considerano la penuria di informazioni e materiali reperibili al tempo. Come nel mio caso, non era necessario essere il suo migliore amico per attingere a quel patrimonio di conoscenza, foto, fanzine di graffiti, videocassette, audiocassette, bastava trovarsi a incrociare anche casualmente il suo cammino, intenso e breve.

Sono passati trent’anni da quel concerto e qualcuno in meno dalla scomparsa di Massimo, la scena romana ha proseguito solida nei suoi elementi storici come i Colle Der Fomento e i Cor Veleno, Ice One, Stile, Stand e tutta l’esperienza del Rome Zoo, mostrando lungo il percorso la rara capacità di apprezzare certi canoni d’oltreoceano senza tentare di riproporli identici in un contesto completamente differente. É una condizione italiana ma ancora di più tutta romana quella di ammirare senza idolatrare, riservandosi la possibilità di dissacrare, di osservare con diffidenza, gelosi della propria unicità. E non è questo lo spirito originario dell’Hip Hop in cui ogni elemento (il giradischi, il mixer, la drum machine, la bomboletta spray e perfino i capi firmati) viene usato con uno scopo o in un contesto differente da quello per cui è stato creato? Storpiavamo beffardi il ritornello di “The Freaks Come Out At Night” in “Te fischiano le Nike” con la stessa disillusione con cui Nando Meliconi si riappropria della sua romanità “distruggendo” il maccherone e lasciando ben volentieri mostarda e yogurt al sorcio. So per certo che Massimo era a quel concerto di trent’anni fa, magari ci siamo anche incrociati, forse era proprio quel ragazzo un po’ spavaldo che ha saputo cogliere l’attimo.

CRASH KID | A HIP HOP LEGACY

  • Autore: Napal & Ben Matundu
  • Formato: Softcover
  • Pagine: 320
  • Data di pubblicazione: 2019
  • Lingua: Inglese, Italiano
40,00

FUTURA 2000 FULL FRAME

  • Autore: Futura 2000, Magda Danysz, Vittorio Parisi
  • Formato: Copertina
  • Pagine: 242
  • Data di pubblicazione: 2018
  • Lingua: Inglese
120,00

VANGELO MMXVIII

  • Autore: Paolo Cenciarelli
  • Formato: Softcover
  • Pagine: 224
  • Data di pubblicazione: 2019
  • Lingua: Italiano
30,00

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