Kittesencula è per tutti e prima di tutto uno sticker, nero su bianco, che per anni ha campeggiato nel fulcro della movida romana espandendosi pian piano dovunque, invadendo in poco tempo prima tutta la capitale e poi l’Italia intera. Kittesencula è diventata poi una T-shirt desideratissima, un blog un po’ hardcore per noi vecchietti bacchettoni e come brand è riuscita a declinarsi in mille modi diversi. Intervistiamo qui l’ideatore, collega e amico Nicola Veccia Scavalli che ci racconta un po’ di retroscena e che, nelle ore morte di questa lunga reclusione forzata, magari può rispondere a qualche domanda che in dieci anni di conoscenza non abbiamo mai avuto modo, luogo e tempo di porgli. Enjoy!
Quando e dove è nato Kittesencula?
Kittesencula nasce, se così si può dire, nel 2001.
All’epoca condividevo con altri tre figuri uno studio di pre-stampa; facevamo grafica e sviluppavamo pellicole, fotolito e impaginazione per alcune tra le più scalcagnate realtà editoriali romane, piccole e grandi. Drago era appena nata dalle ceneri della Castelvecchi. Incontravo l’editore, Paulo von Vacano regolarmente per cazzeggio, piani di invasione del Kamchatka e altre follie del genere; a Roma se respirava n’aria di primavera tutto l’anno. Si era un po’ sgonfiata la bolla asettica del rigore grafico svizzero e, in barba al “think different” di Steve Jobs, si continuava a cercare la ‘svolta’, cioè il modo per continuare a fare bisboccia guadagnando quanto bastava per stare tranquilli. Avevamo, chi più chi meno, attraversato i ’90 surfando splendidamente sulle nostre convinzioni e, per la nostra generazione che aveva appena visto crollare le torri gemelle, era tempo di una sana e sacrosanta proficua decadenza.
La mia “jeunesse dorée” Trasteverina era finita, vivevo a piazza Vittorio e sentivo che era ora di darsi da fare; era il 1995 e non volevo arrendermi all’idea di trovare un lavoro vero, quindi ho cercato di prendere seriamente tutto ciò che mi divertiva. Negli anni ero stato spesso a contatto, per un verso o per l’altro, con il mondo dei localari romani ed ero rimasto colpito dal mondo legato alla produzione di flyer e simili – quelli dello Studio Mariotti in primis: le litigate là dentro, quando mi è capitato di commissionare loro qualcosa, sono state di grande stimolo. Conobbi poi la Kern&Track, nata sulle ceneri di Punto e linea, a Via Merulana. Erano trashissimi; avevano sviluppato per Piotta le pellicole della Banda del Trucido (mixtape mitologico). Fù lì che incontrai Stefano Orsini e Alessandro De Sclavis, due romanisti sfegatati (a me del calcio non è mai fregato più di tanto a parte dire Forza Roma), con i quali avrei in seguito condiviso più di quanto non avrei potuto immaginare. Lavoravo per istituzioni estere e realtà romane legate al comune di Roma come Zone Attive e altre realtà ormai scomparse: insomma, mi davo da fare per svoltare lavori che poi avrei sviluppato anche con gli skills e le dritte dei miei nuovi compari. Decidemmo, con lui e De Sclavis, di prendere insieme,”a stecca para” come si dice a Roma, uno studio – oddio, studio: era un vero porcile, in un seminterrato di viale Manzoni, e c’era un continuo andirivieni di personaggi di ogni tipo, dai più improbabili ai più rispettabili, del mondo dell’arte e dell’editoria, nazionale e perfino internazionale. Direttori di Accademie straniere, editori d’arte, editori di libri per bambini, editori di fotografia, che si alternavano con i vari broker sguinzagliati, come si usava allora, da stampatori di provincia, e tutto il submondo dei cosiddetti ‘planciaroli’ – quelli che si vendono stampa e distribuzione per i volantini di realtà tipo M.A.S., per capirci… Era tutto abbastanza esilarante, un gigantesco rutto anarchico, in cui il lavoro umile era veramente al centro dei rapporti umani e di fatto annientava le smanie snob di alcuni clienti (alla memoria dei quali va però, se non altro, riconosciuto un certo senso dell’umorismo considerando il carico di inaspettata ‘realtà’ cui venivano sottoposti ogni volta). Anni di formazione, sigarette, puzza di acido, pellicole, System9 e QuarkXpress. A me andava di lusso. Mi trovavo i clienti da solo, non avevo orari e, se arrivavo co’ tre teste dalla sera prima, a pranzo s’abbassavano le saracinesche, se magnava, se dormiva, se rideva, non ce se inculava nessuno. Appunto.
…Ma soprattutto… Perché?!?!?!
Non c’è un perché. Insieme a “vaffanculo” e “sticazzi”, “kittesencula” è uno dei mantra imprescindibili del romano o di chi, come me, vive a Roma da una vita. Da un punto di vista fisico, però, Kittesencula è nato dall’impulso editoriale sostenuto da Drago. In quegli anni si cercava di far combaciare la logica dei “meeting”, delle “slide”, lo spirito un po’ ‘cool’, un po’ ‘street’, con una certa resistenza romana, dissacrante, che poco o nulla aveva (cioè, voleva avere) a che fare con le varie start-up e agenzie di comunicazione – che fioccavano come funghi – e che noi dell’editoria avevamo solo voglia di sfanculare e relegare alla loro funzione di volgari pubblicitari. Stavamo a rosica’, è chiaro, visto che pe’ vede’ du’ lire toccava fa’ carte false mentre quella si rivelava di settimana in settimana un’economia fiorente. Ma era una forma di rosicaggio bonario, sfascione, vecchia scuola, niente di personale, insomma: ce n’era per tutti. Anzi, era costruttivo, in questo senso. Un giorno Paulo venne a studio perché stavamo preparando una plancia di adesivi promozionali per il libro pubblicato da Drago di Ed Templeton, The Golden Age of Neglect (che era in uscita, nel 2002), da portare a Francoforte per la Fiera del libro. Sul 35×50 della Fasson (carta adesiva) restava una striscia di 20 cm che non sapevamo come riempire; si baccagliò a lungo, parteciparono un po’ tutti i presenti. Tra una proposta e l’altra, a un certo punto venne fuori “chi ti s’incula”. Dal fondo della stanza, senza girarsi, Stefano biascicò perentorio: “Veramente se dice chittEsEncula”. La discussione era chiusa e lo spazio sulla plancia riempito.
Quando gli adesivi Kittesencula hanno iniziato ad apparire per le strade, di Roma prima e d’Italia poi, il fenomeno degli sticker non era ancora così diffuso. Come ti è venuta questa idea e come hai fatto a raggiungere così tanta visibilità in poco tempo?
Per carità, l’adesivo esiste da prima che nascessi ma negl’anni, l’adesivo è anche diventato il cugino pigro del tag. Avendo un background prima da skater e poi da hiphoppettaro, per me è da sempre uno strumento base, insieme alle T-Shirt, per la comunicazione di strada. Questi due elementi sono stati, e sono tuttora, alla base del rapporto che ho con la città, per non dire con la vita: trick, adattamento, osservazione veloce, scelta dello spot migliore e “protect you neck”. Sono tutti elementi che derivano dalle due culture in cui sono cresciuto. Quando mi sono separato dalla mia prima moglie giravo spesso di notte, a piedi, come un ossesso, per decomprimere lo stress e la voglia di una ennesima birra. Portavo con me una mazzetta di adesivi e via. Per me, in un certo senso significava anche regredire alla Golden Era di quando da ragazzini, con Aimé, Felix, Ben, Kat48, tra gli altri, portammo il Wu-Tang a Roma (1999) e tappezzammo Roma di adesivi e manifesti, oppure di quando, poco dopo, crossavo gli adesivi di Zetazeroalfa con quelli delle produzioni che pubblicavo con Unic Records, (“Epicentro Romano”, “2Buoni Motivi”, “Indelebile Inchiostro”…).
La differenza era il messaggio: nel primo caso si trattava di diffusione, di una roba specifica e circoscritta a un evento o a un progetto. Questi invece, non erano rivolti a nessuno e non parlavano di nulla in particolare, eppure in un certo senso erano rivolti a tutti e potevano parlare di tutto. Girando per strada alzavi lo sguardo e te lo trovavi davanti a sorpresa. E immagino che l’effetto sia stato lo stesso per tutti: faceva ridere, come un sollievo. Era una pacca sulla spalla, era uno sfogo perché magari te rodeva il culo ed era esattamente quello che stavi pensando, era la voce di tutti, ognuno per sé e con i suoi buoni motivi, era come quando incroci uno sguardo amico o assisti a una buona azione. Penso sia fondamentalmente questo il motivo del suo aver fatto breccia nei cuori più diversi. C’è chi se l’è messo in fronte, chi sul culo, chi ci s’è tappezzato casa, chi se l’è portato dall’altra parte del mondo, chi se l’è tatuato.
Perché ci puoi fare quello che vuoi, è una roba che appartiene a tutti. Cioè, non ha una specifica categoria d’appartenenza: non ha sesso, non ha orientamento politico, non ha reddito, non ha colore, non ha confini. Può vantare una certa libertà, diciamo. Non è mica roba da poco di questi tempi.
Rocco Siffredi (sinistra) e Massimo Marino (destra)
Perché le persone si sentono così legate al concetto di Kittesencula? Cosa c’è secondo te di così attraente e allo stesso tempo che accomuna po’ a tutti?
Non so se le persone ancora oggi si sentano così legate al concetto. La leggerezza di dire “fanculo tutto” non appartiene più al presente. Perché mi sembra che le categorie d’appartenenza oggi siano, nonostante gli asterischi, di grande attualità e più ingombranti di prima. Kittesencula rimane oggi come un rilancio di una romanità becera fiera delle proprie specificità. Mi piace pensare che oggi Kunt, il marziano di Flaiano, si sarebbe beccato una vagonata di stickers.


Guardando i caschi o i motorini degli adolescenti possiamo dire che Kittesencula abbia aperto la strada a diverse altre realtà che possiamo definire “affini”. Come hai vissuto questo degenero dello stickeraggio romano?
Mi è piaciuto da morire, è stata la mia conferma post-adolescenziale che stabilisce che tutto ciò che ha presa su di me, spesso è destinato a funzionare negli anni a venire. Così è stato per lo skate, la musica, i vizi. Oggi l’amico Luca Caruso (LDDLDT) cura lo Sticker festival dove partecipa la ‘crème de la crème’ di questa roba qua. Il fenomeno dello sticker, e quello romano in particolare, si è in un certo senso normalizzato. Ne sono nati una infinità, legati a diverse realtà, romane e non, che hanno dato al fenomeno un nuovo respiro grazie a una ricerca e a un lavoro di comunicazione attento, e che oggi ‘girano’ molto di più di kittesencula. Penso a LDDLDT ma anche a Welcome to Favelas, come anche a certi streetartist, primo tra tutti Geco, che devo dire stanno sul pezzo con una metodicità sorprendente.
Kittesencula.com è anche un blog con un impatto visivo molto forte e perturbante. Come scegli le immagini da mostrare?
Il sito si divide in due categorie: il .com è il sito principale, mentre .org che è una carrellata di circa 50.000 foto caricate negli anni (dal 2008, circa). All’inizio usavo l’html rozzo (come su https://www.kittesencula.com/pages/kittesencula-if-you-dont-belong-then-dont-be-long), poi tumblr mi ha facilitato la cosa. Ho passato circa 20 anni davanti a schermi di computer in attesa di bozze corrette, testi da impaginare, email, caricamenti ftp. Le settimane si sono sempre alternate tra ritmi frenetici e queste attese snervanti, ed è stato naturale iniziare a vagare sul web, durante le attese, in cerca di una distrazione e soprattutto di materiale da mettere da parte: ho incamerato tutto ciò che iconograficamente aveva senso per me e, secondo me, per quelli della mia generazione. Siamo cresciuti nell’era della comunicazione, i videoclip anni ’90 hanno ci hanno abituato a dare spesso più importanza alla forma che al contenuto. La società dello spettacolo ha spalancato le porte a una riflessione più ampia e a varie digressioni e degenerazioni di ciò che viene definito il “bello”. L’accesso allo sconfinato materiale iconografico che abbiamo ci consente di giocare ad associare, combinare roba che fino a un momento prima non si toccava. Bello è dunque anche una fotografia di Avedon vicino a una copertina degli NWA, per dire. È una sorta di remix visivo in cui si tenta di salvare tutto ciò che appartiene alla sfera del salvabile.
Avessi saputo aspettare Instagram, e imparare a sfruttarlo al meglio, oggi forse avrei migliaia di followers. Ma poi avrei dovuto sapere pure dove ‘condurli’ ‘sti follower. E il punto è che, si sarà capito, io non stavo e non sto andando da nessuna parte in particolare con Kittesencula.

Che consiglio daresti ora a un ragazzo che vuole creare un proprio brand?
E io che ne so. Non sono mica un brand e poi i consigli li lascio dare a chi crea un opportunità di svolta… io non c’ho mai guadagnato una lira.
PS: Non è possibile chiudere questa conversazione a due senza ringraziare chi negli anni ha abbracciato e continua a sostenere la causa senza riceverne nulla in cambio. Penso a Agnese Cinese, Paki Meduri, tutta la banda degli infrequentabili dei 3 Scalini oltre a Mogli e cugini sparsi, ci tengo a ringraziare gli artisti, fotografi, videomakers, tatuatori, bloggers, scenografi, baristi e lanciatori di coriandoli sparsi per aver portato avanti il ‘verbo’. Daje e sempre forza Roma!

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